Quante volte l’imprenditore si è trovato davanti al mutamento del titolo dell’assenza del lavoratore da malattia a ferie? Come si deve comportare il datore di lavoro quando tale richiesta pervenga dal lavoratore al fine di evitare il licenziamento per scadenza del periodo di comporto?
La recentissima ordinanza della CORTE DI CASSAZIONE del 14 settembre 2020, n. 19062 fornisce le istruzioni per un corretto bilanciamento degli interessi contrapposti.
Vediamo cosa dice…
Da dove nasce la questione?
Una lavoratrice dipendente, dolendosi del fatto di essere stata licenziata illegittimamente per superamento del periodo di comporto, dopo il rigetto ottenuto nei primi due gradi di giudizio, si è rivolta alla Suprema Corte di Cassazione.
In particolare, la ricorrente affermava che, nonostante prima dello spirare del comporto per malattia avesse richiesto, in costanza di idonea certificazione medica, un periodo di ferie di venti giorni (periodo che, ove concesso, avrebbe impedito il superamento del comporto) l’azienda le aveva concesso un solo giorno di ferie.
Le successive assenze della lavoratrice, così, venivano considerate dal datore di lavoro non giustificate e, pertanto, ne conseguiva il licenziamento per giusta causa.
Cosa ha affermato la Corte di Cassazione prima dell’ordinanza del 14 settembre 2020?
Come già avuto modo di evidenziare nell’approfondimento del 20 settembre 2020 (htthps://www.rennastudiolegale.it/diritto-alle-ferie-poteri-e-limiti-del-datore-di-lavoro/), secondo l’art. 2109 c.c., le ferie vanno usufruite “nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro”.
In merito all’argomento la giurisprudenza di legittimità non è stata uniforme, nel tempo, e ciò ha creato confusione ed incertezza.
In particolare, si sono succeduti fondamentalmente due diversi orientamenti giurisprudenziali.
Secondo il primo orientamento, più rigido, vi era la negazione assoluta della possibilità del mutamento del titolo dell’assenza da malattia a ferie.
L’interpretazione era così restrittiva che veniva sistematicamente negato anche il caso opposto, ovvero quello dell’interruzione per malattia del periodo feriale.
Nella stessa direzione si era mossa la Corte Costituzionale, la quale precisava che la fruizione delle ferie doveva ritenersi interrotta in caso di sopravvenuta malattia.
Il secondo, successivo, orientamento riconosceva, invece, una piena ed indiscriminata “intercambiabilità” tra i titoli di assenza.
Su questa scia, in merito al licenziamento per superamento del periodo di comporto, veniva ritenuto legittimo computare il periodo di ferie non godute al termine dello spirare del comporto per malattia. Ne conseguì un vero e proprio automatismo di tale procedura.
Infatti, qualora il lavoratore assente per malattia avesse maturato il diritto ad un periodo di ferie, la scadenza del periodo di comporto sarebbe stata prorogata sino all’esaurimento dei giorni di ferie maturati e non goduti; ciò senza necessità di un’espressa richiesta del lavoratore di fruire delle ferie maturate (Corte di Cassazione, Sez. Lav., sentenza 6 giugno 1991, n. 6431).
Con una sentenza del 28 gennaio 1997, la n. 873, la giurisprudenza di legittimità ha cambiato nuovamente rotta, affermando il principio generale di incompatibilità tra effettivo godimento delle ferie e sussistenza di una malattia, in quanto ciò avrebbe reso impossibile alle stesse di esplicare la loro propria funzione di garantire il recupero delle energie psico-fisiche del lavoratore.
In particolare, si addiveniva ad una maggiore delimitazione della facoltà del lavoratore: si stabiliva, infatti, che fosse necessaria la richiesta del lavoratore, la quale non doveva pervenire prima della scadenza del periodo di comporto e che dovesse indicare, con esattezza, il periodo di fruizione domandato. Dunque, il datore di lavoro non poteva evidentemente opporre necessità organizzative contrarie, anche in considerazione del fatto che, al momento della richiesta, l’imprenditore già non dispone dell’attività lavorativa del dipendente malato e assente.
Ne derivava che il precedente automatismo, veniva fortemente mitigato e procedimentalizzato da un minimo rigore formale che doveva necessariamente sostenere la richiesta del prestatore di lavoro.
Con sentenza del 12 luglio 2016, n. 14194, infine, la Suprema Corte di Cassazione ha ulteriormente chiarito che il lavoratore non può scegliere arbitrariamente il periodo di godimento delle ferie, né imputare a ferie le assenze per malattia, trattandosi di evento che va coordinato con le esigenze di un ordinato svolgimento dell’attività dell’impresa e la cui concessione costituisce una prerogativa riconducibile al potere organizzativo del datore di lavoro.
Cosa afferma la recentissima ordinanza n. 19062 della Corte di Cassazione del 14 settembre 2020?
La Corte di Cassazione, facendo chiarezza sul contrasto giurisprudenziale venutosi a creare in merito alla questione in esame, afferma che il lavoratore, assente per malattia, ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie.
Tuttavia, a tale facoltà non deve necessariamente corrispondere un obbligo del datore di lavoro di accedere alla richiesta, ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa.
Pertanto, al fine di un corretto bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è necessario che le ragioni datoriali siano concrete ed effettive.
Ne deriva che il rifiuto di concessione delle ferie, necessarie per evitare il superamento del periodo di comporto, quando sia motivato dal datore di lavoro con un generico riferimento a non meglio precisate esigenze organizzative, ovvero fondato su ragioni vaghe ed inconsistenti, comporta l’illegittimità del licenziamento.
Infatti, dovendo ritenersi prevalente l’interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto, Cass. 11 maggio 2000, n. 6043, Cass. 17 febbraio 2000, n. 1774; Cass. 26 ottobre 1999, n. 12031, Cass. 15 dicembre 2008 n. 29317, Cass. 3 marzo 2009 n. 5078, questi ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto.
Grava, quindi, sul datore di lavoro, cui è generalmente riservato il diritto di scelta del tempo delle ferie, dimostrare – ove sia stato investito di tale richiesta – di aver tenuto conto, nell’assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto.
Entro quali margini si può muovere l’imprenditore?
La Corte continua a “sposare” il principio generale per cui spetta al datore di lavoro il “diritto di scelta del tempo delle ferie”, espressamente sancito dall’art. 2109 c.c ma il suo esercizio, quando le ferie sono funzionali ad evitare il decorso del comporto, viene limitato in maniera stringente dalle generali clausole di buona fede e correttezza.
Tuttavia, come sopra esplicitato, il datore di lavoro ben può opporre “ragioni organizzative di natura ostativa”, le quali devono avere il carattere della concretezza e dell’effettività, in quanto non è sufficiente la mera allegazione di “non meglio precisate esigenze organizzative”.
Rimane, pertanto, fermo il principio per cui l’esatta determinazione del periodo feriale, presupponendo una valutazione comparativa di diverse esigenze, spetta unicamente all’imprenditore quale estrinsecazione del generale potere organizzativo e direttivo dell’impresa. Mentre al lavoratore compete soltanto la mera facoltà di indicare il periodo entro il quale intende fruire del riposo annuale, anche nell’ipotesi in cui un accordo sindacale o una prassi aziendale stabilisca – al solo fine di una corretta distribuzione dei periodi feriali – i tempi e le modalità di godimento delle ferie tra il personale dell’azienda”.
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