Con la recentissima sentenza n. 13411 del 1° luglio 2020, la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro offre degli interessanti chiarimenti sul concetto di insubordinazione, posta in essere anche al di fuori dell’orario di lavoro, nonché sul rapporto intercorrente tra le norme della contrattazione collettiva e la clausola generale dell’irrimediabile violazione del vincolo fiduciario, ex art. 2119 cod. civ.
I fatti di causa
Con nota del 14 aprile 2017 al sig. G. P., dipendente della società U. spa, veniva contestata, ai sensi dell’ art. 7 I. 300/70, degli artt. 51, comma 1 e 52 CCNL di settore e dell’art. 17 del Regolamento interno, una grave condotta di insubordinazione, a seguito della minaccia posta in essere nei confronti della responsabile dell’amministrazione, sig.ra M. Z., nel corso di una discussione sorta per la restituzione di una chiavetta per l’uso del distributore del caffè.
Di conseguenza, il datore di lavoro addebitava al lavoratore di avere posto in essere, con tale comportamento, una grave violazione delle regole di correttezza e civiltà nei rapporti con i colleghi, aggravata da atteggiamenti verbalmente minacciosi.
Inoltre, nella medesima sede si addebitava al sig. G.P. la recidiva rispetto a sei infrazioni, nel biennio, di cui una di natura specifica.
Secondo la contestazione disciplinare, la minaccia posta in essere dal dipendente era consistita nell’avere chiuso la porta dell’ufficio e nell’avere pronunciato la frase ”prima o poi, in sede più consona, dovrò farti un discorso “, puntando il dito contro l’interlocutrice.
La minaccia non solo sarebbe stata seria, tale da incutere un fondato timore nella collega, ma sarebbe cessata solo nel momento in cui la sig.ra M.Z. sollevava la cornetta del telefono per chiamare l’amministratore.
L’istruttoria, svolta nella fase sommaria e nella fase dell’opposizione, ha consentito di ricostruire pienamente l’accaduto, confermando le frasi che, lasciate incompiute e proferite immediatamente prima di allontanarsi, erano state pronunciate dal sig. G.P., nel mentre bloccava con la mano la maniglia della porta dell’ufficio e puntava il dito contro l’impiegata.
Si precisa che, in merito alla recidiva, vi erano già due provvedimenti disciplinari, a carico del lavoratore, riguardanti l’insubordinazione, uno risalente all’ottobre 2015, sanzionato con la sospensione di giorni uno, e l’altro del marzo 2017, ugualmente sanzionato con la sospensione di giorni uno.
Per quanto riguarda il diverbio e le minacce, invece, vi era un provvedimento del marzo 2017, di richiamo verbale.
La Corte di Appello di Trento, con sentenza n. 55/2018, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva l’impugnativa di licenziamento disciplinare intimato in data 14 aprile 2017 dalla società U. spa al dipendente G. P..
La decisione della Corte d’Appello si basava sulla motivazione secondo la quale, in una valutazione complessiva delle circostanze acquisite al giudizio, occorreva ritenere sussistente un inadempimento di gravità tale da non consentire la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro, avendo la condotta addebitata, nel contesto descritto e per la recidiva specifica, inciso irrimediabilmente sull’elemento fiduciario del rapporto.
Il sig. G.P. proponeva ricorso alla Corte di Cassazione, affermando che la sentenza della Corte d’Appello avesse trascurato di considerare i principi di uguaglianza e di pari dignità sociale tra cittadini, da applicare anche nelle relazioni e nell’ambiente di lavoro e lamentando l’incomprensibile violazione dei doveri di diligenza e fedeltà.
In particolare, il prestatore di lavoro lamentava, tra gli altri motivi, l’insussistenza di una condotta di insubordinazione, in considerazione dell’assenza di un rapporto gerarchico tra lui e la collega minacciata e l’assenza di una infrazione disciplinare, in quanto il diverbio si sarebbe verificato a giornata lavorativa ormai conclusa.
La decisione della Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione con sentenza n. 13411 del 1° luglio 2020, conferma il licenziamento disciplinare comminato dalla società al dipendente.
In particolare, la Suprema Corte afferma la legittimità del licenziamento ritenendo la condotta idonea a tranciare il vincolo fiduciario. Ciò, nonostante l’alterco si fosse verificato al di fuori dell’orario di lavoro, in quanto comunque riferibile a situazioni aziendali.
Nel caso di specie, i giudici di legittimità evidenziano che la fattispecie integra certamente la violazione della diligenza e buona fede (art. 2014 cod. civ. e 2015 cod. civ.), trovandosi, dunque, in presenza di gravi infrazioni alla disciplina e alla diligenza nel luogo di lavoro.
Invero, la palese minaccia verbale posta in essere dal dipendente era stata accompagnata da un atteggiamento intimidatorio, con cui il colloquio si era concluso. Pertanto, la serietà della stessa, per come percepita dalla persona offesa, era palesemente idonea ad incutere timore e la condotta di prevaricazione aveva turbato la serenità della dipendente, oltretutto gerarchicamente sovraordinata.
A tali elementi occorre poi aggiungere, come puntualmente evidenziato nella sentenza, la circostanza dei precedenti disciplinari riportati dal ricorrente anche per fatti specifici di insubordinazione e di diverbio e minacce, considerati come uno dei parametri di valutazione della gravità dell’illecito contestato, mediante un’operazione complessiva nel contesto del giudizio di proporzionalità.
Il concetto di insubordinazione.
La corte d’Appello di Trento, con sentenza n. 55/2018, aveva già avuto modo di chiarire, in merito alle doglianze del sig. G.P. (secondo cui, nel caso in esame, non vi sarebbe stata insubordinazione, in assenza di un rapporto gerarchico tra lui e la sig.ra M. Z.) che il rapporto gerarchico sussiste ogni qual volta vi sia una sovraordinazione sia pure non nell’ambito dell’esecuzione della prestazione lavorativa, ma anche in un ambito più peculiare, come nel caso di specie quello del settore amministrativo di cui la sig.ra M.Z. era responsabile.
Inoltre, aveva precisato che la circostanza che il diverbio si fosse verificato fuori dell’orario di lavoro non esclude la riferibilità dello stesso a rapporti infraziendali, ossia alla violazione degli obblighi connessi alla corretta esecuzione del rapporto di lavoro, posto che lo stesso aveva ad oggetto proprio obblighi e diritti connessi alla fruizione di servizi/beni aziendali.
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, si conforma a quanto contenuto nella sentenza di secondo grado, aggiungendo delle precisazioni.
In particolare, afferma che il concetto di “insubordinazione” va determinato anche alla stregua dell’accezione lessicale e del significato del termine nel linguaggio giuridico ed in quello corrente. Ovvero, la nozione di insubordinazione, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale (cfr. Cass. n. 3521 del 1984 e n.5804 del 1987 e, da ultimo, Cass. n. 7795 del 2017).4
E’, dunque, erronea in diritto la tesi per cui l’insubordinazione dovrebbe essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori gerarchici.
Invero, la violazione dei doveri del prestatore riguarda non solo la diligenza in rapporto alla natura della prestazione, ma anche l’inosservanza delle disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore o dai suoi collaboratori (art. 2104 cod. civ.).
Condotta di insubordinazione realizzata fuori dall’orario di lavoro.
In merito alla doglianza del lavoratore, secondo cui, nel caso in esame, non vi sarebbe stata un’infrazione disciplinare, in quanto il diverbio si sarebbe verificato a giornata lavorativa ormai conclusa, la sentenza in commento offre degli interessanti chiarimenti.
La Suprema Corte osserva che la condotta oggetto dell’addebito disciplinare, seppure realizzatasi al di fuori dell’orario di lavoro, era stata tenuta dal lavoratore in locali aziendali e si era rivolta in danno di una dipendente che, nel particolare contesto organizzativo, era preposta a rappresentare l’azienda in veste di responsabile amministrativo. Inoltre, la vicenda aveva riguardato aspetti che afferivano comunque all’osservanza di disposizioni interne dettate dal datore di lavoro circa l’uso di beni aziendali.
Per tali ragioni la Corte di Cassazione ha ritenuto che non fosse pertinente al caso di specie il richiamo della giurisprudenza di legittimità relativa a comportamenti extra-lavorativi tenuti dal dipendente, in quanto il carattere extra-lavorativo di un comportamento non ne preclude, in via generale, la sanzionabilità in sede disciplinare, atteso che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisce anche ai vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto di lavoro.
Rapporto intercorrente tra le norme della contrattazione collettiva e la clausola generale dell’irrimediabile violazione del vincolo fiduciario, ai sensi dell’art. 2119 cod. civ.
Con un ulteriore motivo di doglianza il dipendente ritiene che la propria condotta sarebbe consistita in un diverbio privo delle vie di fatto, infrazione per la quale, secondo un’interpretazione sistematica del CCNL, le parti sociali avrebbero escluso il licenziamento per giusta causa.
Il ricorrente richiama l’art. 54 CCNL di settore, che punisce con il licenziamento senza preavviso il lavoratore che “commetta gravi infrazioni alla disciplina o alla diligenza nel lavoro o che provochi all’azienda grave nocumento morale o materiale o che compia azioni delittuose in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro” e che indica, in via esemplificativa, l’ipotesi (lettera i) del “diverbio litigioso, seguito da vie di fatto avvenuto nel recinto dello stabilimento e che rechi grave perturbamento alla vita aziendale”.
In particolare, argomentando a contrario, il lavoratore afferma che il diverbio senza vie di fatto non potrebbe integrare la suddetta ipotesi e che, quindi, nel sistema valoriale dettato dalle parti sociali, la condotta ascritta poteva integrare soltanto un’ipotesi punibile con sanzione conservativa.
La Suprema Corte di Cassazione ritiene anche tale motivo infondato. Infatti, chiarisce, al riguardo, che la scala valoriale recepita nel CCNL costituisce uno dei parametri cui fare riferimento ai fini del giudizio sussuntivo della fattispecie concreta nella clausola generale di cui all’art. 2119 cod. civ.. Tuttavia, anche quando la condotta sia astrattamente corrispondente alla fattispecie tipizzata contrattualmente, occorre pur sempre che essa sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo (v. Cass. nn. 9396 e 28492 del 2018, n. 14063 del 2019, nonché Cass. n. 8826 del 2017, n. 27004 del 2018 e n. 19023 del 2019).
Inoltre, aggiunge che ai fini della valutazione di proporzionalità, l’indagine giudiziale deve essere diretta non solo a verificare se il fatto addebitato sia o meno riconducibile alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l’irrogazione del licenziamento, ma anche, attraverso una valutazione in concreto, se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza (v. Cass. 18195 del 2019).
Alla luce di tanto, con la sentenza in commento, la Suprema Corte ritiene conforme a diritto il giudizio complessivo espresso dai giudici di merito, che hanno ritenuto la fattispecie non sussumibile in quella del mero diverbio tra colleghi senza vie di fatto, ma idonea ad integrare una irrimediabile violazione del vincolo fiduciario, ai sensi dell’art. 2119 cod. civ., non omettendo di considerare la scala valoriale del contratto collettivo, oltre che i valori fatti propri dalla coscienza sociale.
Da ultimo, la Corte chiarisce che anche la considerazione della recidiva deve rientrare nel giudizio di proporzionalità della sanzione, atteso che la reiterazione di infrazioni analoghe rivela, dal punto di vista soggettivo, una scarsa consapevolezza degli obblighi del dipendente nei confronti dei colleghi e dei preposti, e dal punto di vista oggettivo, una situazione idonea a turbare la serenità aziendale.
Nardò, 22 luglio 2020
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