Premessa.
Le parole servono a comunicare e raccontare ma anche a provocare, a produrre trasformazioni e cambiamenti della realtà. Le parole possono emozionare, corteggiare, proteggere, ma anche tradire, offendere, minacciare, diffamare, calunniare.
La legge riconosce ad ognuno di noi il diritto di “manifestare liberamente il proprio pensiero”, tanto che l’art. 21 della Costituzione, l’art. 10 della Carta Europea dei Diritti Umani (CEDU) e l’art. 11 della Carta di Nizza ne fanno un principio fondamentale non revisionabile in peius.
L’esprimersi a parole è legato a vari fattori soggettivi, oggettivi e di contesto.
Gli anzidetti fattori, oltre alla verifica dell’elemento psicologico (dolo generico) del dichiarante e la pluralità dei destinatari della comunicazione, costituiscono il parametro di verifica del Giudice Penale nell’accertamento del reato di diffamazione.
La diffamazione, prevista dall’art. 595 cod. pen., altro non è che la violazione del diritto di una persona a vedere tutelata la propria reputazione, diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, corollario del diritto alla vita privata espressamente sancito dall’art. 8 della CEDU, in assenza di una scriminante.
Un recente caso giudiziario risoltosi positivamente per un cliente del nostro studio, offre l’occasione di un approfondimento in relazione al diritto di critica nell’esercizio di una funzione politica.
Da dove nasce la questione?
In un concitato consiglio comunale un consigliere d’opposizione aveva reso dichiarazioni aspramente critiche e vagamente allusive in ordine al <<modus operandi di uno specifico ufficio del Comune in questione>>. In particolare, le critiche esacerbate, poi sindacate dal Giudice Penale, hanno riguardato un procedimento amministrativo relativo: alla nomina pro bono di un comitato tecnico scientifico per la gestione di una infrastruttura culturale. Ad avviso del consigliere l’esclusione di due candidati in ordine alla mancata dimostrazione dei requisiti richiesti dal bando di gara era da ascriversi: per un verso a superficialità nella gestione della procedura di apertura delle buste da parte dei funzionari della commissione e, per altro verso, ad un eccesso di zelo nella valutazione della documentazione prodotta dai candidati, che per le finalità del procedimento, a suo modo di vedere, potevano essere tranquillamente superate da un approccio più aperto e meno rigoroso, attesa la sussistenza delle autocertificazioni circa il possesso dei requisiti di tutti i candidati, compreso gli esclusi.
Le dichiarazioni rese dal Consigliere comunale, unitamente alle altre dichiarazioni degli intervenuti al Consiglio Comunale in questione, sono state registrate e riprodotte dal servizio di stenotipia in un verbale di riunione che, unitamente agli atti presupposti, hanno costituito il materiale probatorio atto per il rinvio a giudizio dell’imputato.
La funzionaria del comune, che ha ritenuto tutelare la propria reputazione sporgendo querela avverso il dichiarante e costituendosi parte civile – pur non espressamente nominata dall’Imputato, per varie circostanze tutte addotte negli scritti difensivi ed emerse nel dibattimento – ha ritenuto essere, oltre ogni ragionevole dubbio, l’oggetto degli strali scomposti ed allusivi del Consigliere comunale.
I testimoni escussi nel corso del dibattimento, attesa la vetustà dei fatti, hanno confermato le circostanze riprodotte nei verbali oggetto del processo; per cui, certamente, le dichiarazioni incriminate sono state rese dal Consigliere Comunale, come dallo stesso confermato, seppure quale espressione del libero esercizio dei diritti, prerogative e facoltà assentite dalla legge per il ruolo politico svolto.
Tuttavia, nessun testimone ha confermato la riferibilità delle dichiarazioni dell’imputato alla parte offesa, che, oltretutto del procedimento amministrativo criticato era sì parte attiva ma giuridicamente non la sola coinvolta e non la maggiormente esposta, in quanto altra persona ricopriva il ruolo di Responsabile Unico del Procedimento.
Al quadro appena delineato si aggiunge, altresì, altra circostanza rilevante ai fini dell’esito finale del processo: la difficile interpretabilità della semantica usata dall’Imputato; per lo più ammantata da una retorica alquanto barocca e fin troppo ermetica, con torsioni, troncature lessicali e circonlocuzioni ridondanti, tali da mitigarne non solo la portata offensiva ma, finanche, le finalità di aspra critica e l’approccio fortemente dialettico dell’autore.
La richiesta di assoluzione del PM formulata ai sensi dell’art. 530 co. 2 c.p.p. (il fatto non costituisce reato) si è fondata, principalmente, sulla mancanza di una prova certa circa la riferibilità delle locuzioni asseritamente diffamatorie alla persona offesa e, secondariamente, sulla modesta lesività delle dichiarazioni sindacate, vagamente allusive e di per sé generiche.
La parte civile insisteva nell’accertamento della penale responsabilità dell’imputato ripercorrendo le fasi del dibattimento ed offrendo una interpretazione asimmetrico rispetto al tenore semantico sostanziale delle dichiarazioni dell’imputato.
La difesa chiedeva la declaratoria assolutoria piena ai sensi dell’art. 530 co. 1 (il fatto non sussiste) appigliandosi al principio fondante il processo penale: il superamento del ragionevole dubbio per vincere la presunzione di innocenza di cui all’articolo 27 della Costituzione, istanza accolta dal Giudice Penale.
Il confine tra critica e diffamazione.
La ricostruzione sintetica del processo citato consente di offrire una soluzione alla questione in esergo.
Se è vero come è vero che la Suprema Corte ha sancito, tra le tante, si veda (Cass.pen. Sez. I, n.16712/14) [… ai fini della integrazione del reato di diffamazione è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa]. D’altro canto il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due (Cass. Pen. Sez. 5, n. 7410 del 20/12/2010).
Tuttavia, sempre la Suprema Corte (Cass. Pen. Sez. V, n. 24065 del 9.06.2016) stabilisce che […Non integra il reato di diffamazione l’affermazione offensiva, caratterizzata da preconcetti e luoghi comuni, che non consenta l’individuazione specifica ovvero riferimenti inequivoci a circostanze e fatti di notoria conoscenza attribuibili ad un determinato individuo, giacché il soggetto passivo del reato deve essere individuabile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa prospettazione oggettiva dell’offesa, quale si desume anche dal contesto in cui è inserita. Tale criterio non è surrogabile con intuizioni o con soggettive congetture che possano insorgere in chi, per sua scienza diretta, può essere consapevole, di fronte alla genericità di un’accusa denigratoria, di poter essere uno dei destinatari].
Ecco che la Suprema Corte perviene ad un approdo ermeneutico di particolare rilievo e che impone al Giudice un sindacato che si sposta dalla dichiarazione al contesto in cui la stessa è stata resa.
E’ evidente che: se le stesse frasi oggetto di sindacato giurisdizionale fossero state rese dal Consigliere Comunale ad es. sulla sua pagina facebook e non nell’assise comunale le frasi vagamente allusive avrebbero avuto una portata lesiva differente.
Al contrario, il rispetto del principio di continenza ossia l’adeguatezza rispetto all’oggetto della discussione richiesta dall’assolvimento di un dovere istituzionale depotenzia la censura circa l’antigiuridicità della condotta.
In via analogica appare illuminante un recente pronunciamento della Suprema Corte (cass. Pen. Sez. V, n. 11294 del 3 aprile 2020) per cui [… Non costituisce diffamazione l’esposizione di una legittima doglianza rispetto ad una situazione ritenuta ingiustamente lesiva di diritti o prerogative, laddove si tratti di una consentita interlocuzione tra (e con) soggetti istituzionali, coinvolti nell’ambito di un contesto per sua natura conflittuale. (Fattispecie relativa all’invio da parte di un avvocato, nell’ambito di una procedura esecutiva, di una missiva all’ufficiale giudiziario nella quale si affermava “ritengo che lei abbia sostanzialmente rifiutato di adempiere ai doveri che il suo ufficio le impone” per contestare la attendibilità di un verbale di pignoramento negativo, nella quale la Corte ha escluso che ricorresse l’elemento oggettivo dell’offesa all’onore ed alla reputazione del pubblico ufficiale)].
Conclusioni
“Le parole fanno le cose”, come suggerisce, fin dal titolo, un libro fortunato del linguista Jonhn L. Austin. Ed ecco che, se, per un verso, la censura rispetto a parole invasive della reputazione altrui non può che essere ferma e severa, alla stessa stregua della valutazione del contesto, che, per altro verso, scrimina chi, assolvendo un ruolo istituzionale, politico, professionale o altro, non trascendendo mai immotivatamente sul personale, nell’esercizio di diritti e prerogative assentite dalla legge, usa un linguaggio aspro ed a tratti feroce per stigmatizzare procedimenti, fatti e o atti asseriti, seppur in buona fede, lesivi dell’interesse personale o generale.
Del resto, gli artt. 21 Cost., 10 CEDU e 11 Carta di Nizza non tutelano le idee favorevoli o inoffensive o indifferenti, essendo rivolti proprio a tutelare le opinioni che urtano – scuotono – inquietano, proprio, quello che ci si aspetta da un politico dell’opposizione al Governo.
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Co-fondatore di Renna Studio Legale - Avvocato Cassazionista - Corporate Ethics & Compliance Specialist - Lead Auditor ISO 9001- 37001 - 19011. E' partner 24 ore avvocati - Esperto di diritto degli appalti - Già Cultore della materia di diritto Amministrativo e componente commissione di esami - Università degli Studi "A. Moro" Bari - Facoltà di Economia e Management - Componente di Organismi di Vigilanza e Controllo ex D.lgs. 231/01 e ISO 37001 di società italiane e straniere.
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