di Mario Nanni intervistato da Giorgio Giovannetti in “Passi Perduti”
IL CASO MORO: IL PASSATO CHE NON PASSA
Mario Nanni, giornalista parlamentare, già caporedattore del servizio politico dell’Ansa, scrittore, suoi: Lessico parlamentare in Dizionario della comunicazione (1995); il Curioso Giornalista, (2018); Il caso Moro, in Passi perduti (2018), “Parlamento Sotterraneo – Miserie e nobiltà scene e figure di ieri e di oggi (2020).
“Passi perduti”, edito da Giappichelli (2018) di Giorgio Giovannetti è un compendio ragionato della storia politica e istituzionale italiana attraverso le testimonianze di sedici autorevoli firme del giornalismo. Dalla nascita della Repubblica ai giorni nostri. Un libro che racconta il passato e aiuta a capire il presente. Tra il più anziano e il più giovane degli intervistati passano quasi 50 anni.
Mi scuseranno i lettori di questa rubrica, ma la mia lettura si è soffermata, esclusivamente, sull’intervista a Mario Nanni, giornalista politico di lungo corso e preziosa recente amicizia.
“Dove eri la mattina del 16 marzo 1978? Come hai appreso del rapimento di Moro?”
Dall’incipit dell’intervista si percepisce l’obiettivo della storia, ospitata nel compendio citato, raccontare un vissuto, soffermarsi sulle emozioni oltre che sulle analisi politiche, recuperare il pathos di quei giorni.
Nanni risponde: “…a fare acquisti in un negozio di abbigliamento in corso Vittorio quasi di fronte l’abitazione di Giulio Andreotti e di aver appreso la notizia del rapimento, per caso, dalla radio accesa dell’esercizio commerciale”.
Da lì a pochi istanti, Roma non sarebbe stata più la stessa, l’Italia sarebbe radicalmente cambiata, si stava consumando “l’attacco al cuore dello Stato”.
Nel rispondere all’incalzare delle domande di Giovannetti, Nanni che da giornalista e scrittore è sempre stato un costruttore di ponti con i suoi lettori, ci riporta sulle strade romane di quei giorni; sullo sfondo, si ha la sensazione di avvertire lo stridore delle sirene delle auto della polizia, i visi sconcertati della gente comune e la paura degli uomini del transatlantico di sentirsi tutti potenziali vittime delle BR.
L’intervistato si guarda bene dall’offrire conclusioni definitive e non si spinge sul piano delle opinioni suggestive, recupera i fatti, a partire dalla strage di via Fani, dove come hanno ricostruito, successivamente, le commissioni di inchiesta, c’erano anche le BR.
La “geometrica potenza” con la quale venne annientata la scorta di Aldo Moro, alcune presenze rimaste oscure, quali: i motociclisti sul campo d’azione, pratica che richiama più la criminalità organizzata che i terroristi di sinistra, la presenza dei servizi segreti italiani e, segnatamente, del colonnello Camillo Guglielmi, che “alla richiesta di spiegazioni, disse che si trovava in via Fani perché invitato da amici a pranzo. Alle 9 di mattina!”, la sparizione delle tante borse dello statista democristiano, al momento, restano pagine bianche tutte da scrivere.
Nanni tratteggia la figura del rappresentante delle istituzioni, del politico Moro, che seppe anticipare un percorso di superamento delle barriere ideologiche con il partito comunista tanto da inimicarsi il potente alleato USA.
Il malore presso la chiesa di San Patrizio a New York dopo il colloquio con Kissinger recupera alla memoria, il freddo di una guerra consumata giorno per giorno dai due blocchi separati dal muro di Berlino, che in quel momento sembrava più solido che mai.
Le interferenze americane erano diverse e variegate, tanto che in una campagna aperta di delegittimazione dello statista originario di Maglie, nel tentativo di screditarlo Moro venne indicato come il probabile Antelope Cobbler, il misterioso percettore di tangenti dell’affare Lockheed.
Significativo e condivisibile lo stigma per un tentativo “mal riuscito” di recuperare la memoria storica dello Statista; il riferimento è alla statua di Moro a Maglie
Nanni parla di “obbrobrio”, soffermandosi sulla copia dell’Unità nelle mani del politico.
Moro, spiega il giornalista, voleva coinvolgere il PCI nella gestione del potere allargando la base democratica dello Stato, senza rinunciare alla irriducibile alterità tra Dc e PCI, per la visione diversa della democrazia, della società, della persona.
Quella statua con l’Unità sotto il braccio dà, invece, la falsa idea che Moro e i comunisti fossero come dicono a Roma “pappa e ciccia”, un falso storico, vero travisamento del pensiero.
Nanni è tra quanti ritengono che il destino di Moro fosse segnato già lo stesso giorno del rapimento.
La grande firma dell’Ansa recupera alla memoria, con un tratto del tutto originale ed emozionale: i giorni della prigionia, le lettere, la trepidazione della famiglia e delle persone più vicine allo statista, il tentativo di mediazione dell’amico Pontefice, che ne chiedeva la liberazione “senza condizioni”, la mediazione tentata di servizi segreti deviati ed esteri, Arafat, Banda della Magliana, Cutolo, il conflitto tra la linea della fermezza e quella del dialogo con i terroristi, Gradoli, il lago della duchessa, la seduta spiritica dei professori di Bologna tra cui Romano Prodi.
Nanni ricorda i lavori della prima commissione di inchiesta istituita pochi mesi dopo il brutale assassinio, le spaccature interne, il rischio corso di incriminazione per “rivelazione del segreto d’ufficio” dell’allora giovane giornalista dell’Ansa che raccoglieva sapientemente “gli spifferi” dei commissari, che oggi chiameremmo whistleblowers.
In particolare, nitido il ricordo che portò al litigio e alla rottura dei rapporti di amicizia tra due commissari di eccezione, della prima commissione di inchiesta Moro: Renato Guttuso e Leonardo Sciascia.
A distanza di alcuni lustri ci ritroviamo con le parole dell’avvocato Agnelli: “con Moro è morta la prima Repubblica” e, purtroppo, nella bara dello statista pugliese sembrano essere riposti tanti misteri e segreti che rendono la storia di quei giorni piena di troppe ed ingombranti ombre.
Giornalisti coraggiosi come Mario Nanni hanno avuto e continuano ad avere il coraggio di accendere una luce su quei fatti, a noi lettori compete il dovere di tenerla alta quella luce, per farsì che quelle ombre, prima o poi, si dipanino per sempre facendo emergere tutta la verità.
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